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Il paziente iperteso: quale cura per una monoterapia efficace

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L'ipertensione arteriosa

La riduzione dei valori pressori è la principale misura terapeutica per la diminuzione del rischio cardiovascolare associato all'ipertensione arteriosa.

Pertanto, se la terapia dell'ipertensione arteriosa si basa solo sulla necessità di ridurre i valori pressori, ha senso parlare di farmaco di prima scelta e, soprattutto, di scelta ragionata dei farmaci da impiegare nell'ipertensione arteriosa?   

Per rispondere a questa domanda occorre  rifarsi alla medicina basata sulle evidenze (EBM) ed agli studi clinici controllati.

Per quanto riguarda l'ipertensione arteriosa, il clinico fonda l'EBM su studi che hanno una durata variabile da 3 a 5 anni per curare pazienti con un'aspettativa di vita a volte di 30-40 anni.

Pertanto, l'EBM fornisce informazioni sul trattamento acuto dei l'ipertensione arteriosa, ma non sulla terapia a lungo termine. Però in alcuni studi, in particolare quelli di Goteborg e di Glasgow, si  dimostra come in un lungo follow-up osservazionale la diminuzione dei valori pressori sia utile per ridurre il rischio di malattia cerebrovascolare, ma non sia sufficiente per normalizzare il rischio relativo.

Va ancora sottolineato che non è la sola riduzione della pressione arteriosa l'unica opportunità terapeutica ma piuttosto tutta una serie di alterazioni funzionali e strutturali sia vascolari sia cardiache (il danno d'organo) che a sua volta è la causa determinante dell'evento clinico.

Di conseguenza, come indicato anche dalle linee guida della European Society of Hypertension (ESH) e della European Society of Cardiology (ESC), la terapia farmacologica deve sicuramente ridurre il carico pressorio ed arrestare i meccanismi fisiopatologici che sottendono al danno d'organo (malattia aterosclerotica), insufficienza renale e cardiopatia ischemica.  Le linee guida delle società scientifiche sopra menzionate introducono il concetto che l'effetto terapeutico del trattamento dipende anche da effetti specifici dei farmaco.

In sintesi, la strategia antipertensiva deve tener conto di:

• danno d'organo subclinico per esempio ipertrofia ventricolare sinistra,microalbuminuria
• eventi clinici per esempio precedente ictus o infarto dei miocardio, scompenso cardiaco o condizioni cliniche associate
sindrome metabolica e/o diabete mellito
• malattia renale cronica

I benefici aggiuntivi da ricercare con la terapia antipertensiva

Quando si sceglie un farmaco antipertensivo è necessario aver ben chiaro che cosa ci si aspetta dalla terapia. Nel paziente iperteso la presenza di danno d'organo orienta non solo a una più corretta determinazione dei rischio cardiovascolare globale, ma anche all'adozione di scelte terapeutichè adeguate. Sicuramente una delle principali condizioni che occorre indagare è la situazione morfologica e funzionale cardiaca.

La diagnosi di ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) è un parametro cruciale per diverse ragioni. In primo luogo è un fattore predisponente indipendente per eventi cardiovascolari. Ciò significa che se si considerano due pazienti, entrambi con valori pressori di 160-100 mmHg, ma uno affetto da IVS e l'altro no, la prognosi dei paziente con IVS è decisamente peggiore.

Non solo, ma esistono evidenze che la riduzione dell'IVS determina un beneficio aggiuntivo alla riduzione dei valori pressori. Nel caso di due pazienti con IVS ed entrambi resi normotesi dalla terapia, la prognosi sarà migliore nel paziente nel quale, oltre alla riduzione dei valori pressori, si sarà ottenuta anche una diminuzione della massa dei ventricolo sinistro. Pertanto, in presenza di IVS, lo scopo della terapia sarà quello di ridurre la pressione arteriosa e di far regredire la massa dei ventricolo sinistro.

Lo stesso concetto si applica agli altri indicatori di danno d'organo, quali la microaIbuminuria. l'aumento dello spessore medio-intimale o la presenza di placca a livello carotideo e i valori di creatininemia ai limiti alti della norma (1,2-1,4 mg/dL nella femmina e 1,3-1,5 mg/dL nel maschio). 

Un elemento oggi di estremo interesse è costituito dalle patologie dismetaboliche che, complice lo stile di vita (alimentazione eccessiva e non adeguata in termini di composizione e, soprattutto, scarsa/assente attività fisica di tipo dinamico), si stanno propagando al ritmo di un'epidemia. Uno dei principali problemi sanitari è la ben nota "sindrome metabolica", una condizione patologica caratterizzata da almeno tre dei fattori di rischio di origine metabolica (obesità centrale,ridotta tolleranza glicidica, ipertrigliceridemia, bassi livelli plasmatici di colesterolo HDL e ipertensione arteriosa), che determina un maggior rischio di eventi cardiovascolari fatali o non fatali.

La sindrome metabolica è un fattore prognostico estremamente negativo in quanto può aumentare il rischio cardiovascolare dei pazienti, sia direttamente sia indirettamente, predisponendo a patologie importanti quali l'ipertensione arteriosa, il diabete mellito e la dislipidemia.

Il trattamento dell'ipertensione arteriosa in pazienti con sindrome metabolica è particolarmente impegnativo poiché alcune classi di farmaci, quali i beta-bloccanti e i diuretici, favoriscono l'obesità, il diabete e la dislipidemia, pertanto in soggetti a rischio per tali patologie andrebbero evitati o utilizzati con estrema cautela.  I calcio-antagonisti, invece, sono tra le principali classi di farmaci antipertensivi a disposizione dei medico per ottenere un'efficace riduzione della pressione arteriosa e una protezione d'organo.

Se si considera l'efficacia antipertensiva sul danno d'organo e sugli eventi cardiovascolari, si può affermare che si tratta di una classe di farmaci sottoutilizzata nel trattamento dell'ipertensione arteriosa.

I calcio-antagonisti hanno la stessa efficacia degli ACE-inibitori nel determinare una riduzione dell'IVS, mentre risultano più efficaci di questa classe di farmaci nel prevenire la progressione dei l'aterosclerosi. Al contrario, gli ACE-inibitori risultano più efficaci dei calcio-antagonisti nel rallentare la progressione dell'insufficienza renale. Occorre comunque sottolineare un aspetto: il fatto che gli ACE-inibitori o gli AT-1 (sartani) antagonisti offrano una migliore nefroprotezione rispetto ai calcioantagonisti.

Gli ACE-inibitori e gli AT-1 antagonisti bloccano l'effetto vasocostrittore dell'angiotensina II sull'arteriola efferente e, pertanto, riducono la pressione intraglomerulare, che costituisce il principale meccanismo di nefroprotezione esercitato da queste classi di farmaci.

Al contrario, i farmaci calcio-antagonisti agiscono indifferentemente sull'arteriola sia afferente sia efferente, quindi espongono il glomerulo alla pressione sistemica. Tuttavia, nella misura in cui i calcio-antagonisti riducono la pressione arteriosa, in modo parallelo risultano nefroprotettivi, essendo ben documentato come la riduzione della pressione arteriosa sia il principale meccanismo che determina nefroprotezione.

Per quanto riguarda l'efficacia dei calcio-antagonisti sugli eventi cardiovascolari, essi sembrano esercitare un effetto specifico nella prevenzione dell'ictus,  mentre per quanto riguarda la cardiopatia ischemica la loro efficacia dipende dall'entità della riduzione dei valori pressori. Il principale limite all'impiego clinico dei calcio-antagonisti è la significativa incidenza di un effetto collaterale quale l'edema perimalleolare.

E' necessario premettere che tale effetto collaterale non costituisce una reale indicazione a sospendere la terapia, in quanto non ha alcuna caratteristica di pericolosità clinica. Può tuttavia rappresentare un forte inestetismo (soprattutto nelle donne, per via delle caviglie gonfie) o risultare fastidioso. La causa dell'edema è meccanica: alla vasodilatazione arteriolare non corrisponde una parallela vasodilatazione venulare e ciò comporta un aumento della pressione idrostatica a livello dei microcircolo degli arti inferiori, con conseguente formazione di edema.

Quando l'edema si presenta, in genere è dose-dipendente. Questo tipo di edema non è ridotto dall'associazione di una terapia diuretica, mentre è possibile limitare l'incidenza di tale effetto collaterale associando un ACEinibitore o un AT-1 antagonista, che, determinando vasodilatazione venulare, compensa lo squilibrio emodinamico dovuto al calcio-antagonista.

I calcio-antagonisti di terza generazione

Nella lunga storia clinica dei calcioantagonisti si è assistito a una continua evoluzione dei farmaci appartenenti a questa classe, fino allo sviluppo delle recenti molecole di terza generazione i cui prototipi sono l'amiodipina, caratterizzata da una lunga emivita plasmatica, la lercanidipina, la lacidipina, la manidipina e infine la barnidipina a lunga emivita recettoriale determinata dall'elevata lipofilia.

Infatti per i calcioantagonisti liposolubili maggiore è la lipofilicità, maggiore è la capacità di legarsi alla membrana delle cellule sia endoteliali sia muscolari lisce, svolgendo localmente una potente azione antiossidantel s. Il farmaco viene poi rilasciato in modo graduale per andare a bloccare i canali dei calcio a livello delle cellule muscolari lisce.

Un'efficacia dei calcio-antagonisti dipende, pertanto, da due meccanismi distinti: un meccanismo diretto antiossidante di membrana e uno specifico sui canali dei calcio. I due meccanismi d'azione determinano effetti diversi e complementari, tipici di questa classe di farmaci.

L'effetto antiossidante è infatti responsabile delle potenti proprietà antiaterosclerotiche e dei profilo favorevole dal punto di vista metabolico, mentre al blocco dei canali dei calcio si deve l'effetto classico, antipertensivo e antianginoso, in quanto conferisce a tali molecole la capacità di vasodilatare.

La lipofilia, responsabile della concentrazione tissutale delle molecole, determina caratteristiche cliniche diverse tra le varie molecole della stessa classe e soprattutto una superiore attività antiossidante nonché, attraverso un rilascio graduale delle molecole, una concentrazione di farmaco costante a livello dei canali dei calcio. La possibilità di evitare oscillazioni nella concentrazione tissutale consente quindi un'efficacia clinica stabile, con una ridotta incidenza di effetti collaterali quali la tachicardia riflessa o l'edema perimalleolare.

Questo aspetto non deve meravigliare in quanto è ben noto che quando furono disponibili le formulazioni a lento rilascio dei calcio-antagonisti di prima generazione, tipo nifedipina, l'utilizzo clinico di tali molecole migliorò decisamente poiché si osservò una significativa riduzione di effetti collaterali, anche se la tollerabilità rimaneva ancora lontana da quella ideale per farmaci da impiegare in una terapia cronica quale quella antipertensiva. La lipofilia dell'ultimo nato dei calcioantagonisti, la barnidipina, è di gran lunga superiore rispetto agli altri farmaci della stessa classe e ciò comporta un rilascio molto più lento e duraturo, responsabile della maggiore selettività vascolare e di conseguenza dei minor numero di effetti collaterali e della maggiore protezione d'organo. Esistono dati clinici che dimostrano chiaramente queste diverse caratteristiche dei calcio-antagonisti.

Nello studio di Rossetti et aU 8 si paragona l'efficacia dei trattamento per 24 settimane con barnidipina (10 mg/die) o con il calcio-antagonista di riferimento, l'amlodipina (5-10 mg/die), in 30 pazienti con ipertensione arteriosa essenziale (15 pazienti per gruppo).

Utilizzando lo "smoothness index", un parametro derivato dal monitoraggio della pressione arteriosa nelle 24 ore e che indica l'omogeneità della riduzione dei valori pressori, è stato dimostrato che entrambi i farmaci coprono le 24 ore; tuttavia, l'effetto della barnidipina è molto più omogeneo, mentre l'amiodipina ha un effetto superiore durante il giorno che tende a ridursi durante la notte.

Nella sindrome metabolica, come già commentato, la terapia antipertensiva di questi pazienti non è semplice: infatti, i farmaci che blocca no il sistema renina-angiotensina in genere non sono particolarmente efficaci poiché la sindrome metabolica è normalmente associata a deplezione di sodio. Per superare tale problema gli ACE-inibitori o gli AT-1 antagonisti devono essere somministrati in associazione con i diuretici, ma queste classi di farmaci, insieme ai beta-bloccanti, sono controindicate nei pazienti con disturbi metabolici.

Una classe di farmaci di prima scelta nei pazienti con sindrome metabolica sarebbe costituita dai calcio-antagonisti, che non risentono della deplezione di sodio in quanto dotati di attività natriuretica.

Spesso, però, i calcioantagonisti non possono essere utilizzati a causa dell'insorgenza di edema perimalleolare, che si osserva più frequentemente nei pazienti obesi per gli ovvi problemi di ritorno venoso dagli arti inferiori.

Nello studio di Angeli et al.19 sono stati valutati 30 pazienti con pressione arteriosa media di 146-87 mmHg (nella sindrome metabolica la definizione di ipertensione si basa su valori > 135-85 mmHg) e trattati per 12 settimane con barnidipina 10 mg da incrementare a 20 mg dopo 6 settimane se la pressione arteriosa non si fosse nornalizzata <140-90 mmHg).

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La pressione arteriosa è stata determinata anche con il monitoraggio delle 24 ore. Inoltre sono stati indagati il profilo glicolipidico e la struttura e funzione del ventricolo sinistro con l'ecocolorDoppler cardiaco. Alla fine delle 12 settimane, nel 40% dei pazienti la posologia della barnidipina era stata aumentata a 20 mg. La pressione arteriosa è risultata normalizzata nel 70% circa dei pazienti, con una riduzione della pressione sistolica e diastolica delle 24 ore pari, rispettivamente, a 12 e 8 mmHg (p = 0,001).

E' significativo che il calcolo dello "smoothness index" abbia rilevato un valore di 0,92 per la pressione sistolica e di 0,82 per la diastolica, a indicare una significativa diminuzione della variabilità pressoria sia diurna sia notturna. Per quanto riguarda il profilo metabolico, il trattamento con barnidipina ha determinato una riduzione significativa (p=0,001) della glicemia basale (da 110 a 104 mg/dL), mentre non ha modificato la colesterolemia basale, LDL e HDL- né la trigliceridemia. Inoltre, il trattamento con barnidipina ha migliorato significativamente la funzione diastolica dei ventricolo sinistro.

I risultati di questo studio, pertanto, forniscono talune informazioni cliniche di grande rilevanza sull'utilizzo della barnidipina in pazienti con ipertensione arteriosa e sindrome metabolica. In questi pazienti ad alto rischio la barnidipina è estremamente efficace nel ridurre i valori pressori, rivelando un effetto duraturo e costante nelle 24 ore. Tale risultato riveste particolare importanza perché una minore variabilità sia diurna sia notturna costituisce un ulteriore meccanismo di protezione dagli eventi cardiovascolari.

Il beneficio pressorio è stato ottenuto con un'ottima tollerabilità, oltretutto senza la comparsa dei fastidiosi effetti collaterali che spesso si osservano con i calcio-antagonisti (specialmente l'edema perimalleolare). Il farmaco ha inoltre evidenziato un eccellente profilo metabolico con un effetto favorevole sul profilo glicidico, confermando così uno studio precedente che indicava come la barnidipina migliori la sensibilità insulinica.

In terapia antiipertensiva, pertanto, risulta importante inquadrare il paziente valutando con attenzione i possibili fattori di rischio cardiovascolare, l'eventuale danno d'organo e le patologie associate. Tutto questo non serve soltanto a definire il rischio cardiovascolare dei paziente, ma anche a scegliere una strategia terapeutica mirata, oltre che alla riduzione della pressione arteriosa, anche alla prevenzione o alla regressione delle varie patologie associate all'ipertensione.

Poiché le classi di farmaci antipertensivi sono molte e hanno caratteristiche diverse, è compito dei buon medico conoscere in modo approfondito ciò che può attendersi dalle sue scelte terapeutiche, in modo da ottenere un'eff icace riduzione degli eventi cardiovascolari nei suoi pazienti.

 

Terapia dell'ipertensione

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