La riduzione dei valori pressori è la principale misura terapeutica per la diminuzione del rischio cardiovascolare associato all'ipertensione arteriosa.
Pertanto, se la terapia dell'ipertensione
arteriosa si basa solo sulla necessità di ridurre i valori pressori, ha senso
parlare di farmaco di prima scelta e, soprattutto, di scelta ragionata dei farmaci
da impiegare nell'ipertensione arteriosa?
Pertanto, l'EBM fornisce informazioni sul trattamento acuto dei l'ipertensione
arteriosa, ma non sulla terapia a lungo termine. Però in alcuni studi, in particolare
quelli di Goteborg e di Glasgow, si dimostra come in un lungo follow-up osservazionale
la diminuzione dei valori pressori sia utile per ridurre il rischio di
malattia cerebrovascolare, ma
non sia sufficiente per normalizzare il rischio relativo.
Va ancora sottolineato
che non è la sola riduzione della pressione arteriosa l'unica opportunità terapeutica
ma piuttosto tutta una serie di alterazioni funzionali e strutturali sia vascolari
sia cardiache (il danno d'organo) che a sua volta è la causa determinante dell'evento
clinico.
Di conseguenza, come indicato anche dalle linee guida della European Society
of Hypertension (ESH) e della European Society of Cardiology (ESC), la terapia farmacologica
deve sicuramente ridurre il carico pressorio ed arrestare i meccanismi fisiopatologici
che sottendono al danno d'organo (malattia
aterosclerotica), insufficienza renale e
cardiopatia ischemica.
Le linee guida delle società scientifiche sopra menzionate introducono il concetto
che l'effetto terapeutico del trattamento dipende anche da effetti specifici dei
farmaco. In sintesi, la strategia antipertensiva deve tener conto di:
danno d'organo subclinico per esempio ipertrofia ventricolare sinistra,microalbuminuria
Quando si sceglie un farmaco antipertensivo è necessario aver ben chiaro che cosa ci si
aspetta dalla terapia. Nel paziente iperteso la presenza di danno d'organo orienta
non solo a una più corretta determinazione dei rischio cardiovascolare globale,
ma anche all'adozione di scelte terapeutichè adeguate. Sicuramente una delle principali
condizioni che occorre indagare è la situazione morfologica e funzionale cardiaca.
La diagnosi di ipertrofia
ventricolare sinistra (IVS) è un parametro cruciale per diverse ragioni. In
primo luogo è un fattore predisponente indipendente per eventi cardiovascolari.
Ciò significa che se si considerano due pazienti, entrambi con valori
pressori di 160-100 mmHg, ma uno affetto da IVS e l'altro
no, la prognosi dei paziente con IVS è decisamente peggiore.
Non solo, ma esistono
evidenze che la riduzione dell'IVS determina un beneficio aggiuntivo alla riduzione
dei valori pressori. Nel caso di due pazienti con IVS ed entrambi resi normotesi
dalla terapia, la prognosi sarà migliore nel paziente nel quale, oltre alla riduzione
dei valori pressori, si sarà ottenuta anche una diminuzione della massa dei ventricolo
sinistro. Pertanto, in presenza di IVS, lo scopo della terapia sarà quello di ridurre
la pressione arteriosa e di far regredire la massa dei ventricolo sinistro.
Lo stesso
concetto si applica agli altri indicatori di danno d'organo, quali la
microaIbuminuria. l'aumento dello
spessore medio-intimale o la presenza di
placca a livello carotideo e
i valori di creatininemia ai limiti alti della norma (1,2-1,4 mg/dL nella femmina
e 1,3-1,5 mg/dL nel maschio).
Un elemento oggi di estremo interesse è costituito
dalle patologie dismetaboliche che, complice lo
stile di vita (alimentazione
eccessiva e non adeguata in termini di composizione e, soprattutto, scarsa/assente
attività fisica di tipo dinamico), si stanno propagando al ritmo di un'epidemia.
Uno dei principali problemi sanitari è la ben nota "sindrome metabolica", una condizione
patologica caratterizzata da almeno tre dei fattori di rischio di origine metabolica
(obesità centrale,ridotta
tolleranza glicidica, ipertrigliceridemia, bassi livelli
plasmatici di colesterolo HDL e ipertensione arteriosa), che determina un maggior
rischio di eventi cardiovascolari
fatali o non fatali. La sindrome metabolica è un fattore prognostico
estremamente negativo in quanto può aumentare il
rischio cardiovascolare
dei pazienti, sia direttamente sia indirettamente, predisponendo a patologie importanti
quali l'ipertensione arteriosa, il diabete mellito e la
dislipidemia.
Il trattamento dell'ipertensione
arteriosa in pazienti con sindrome metabolica è particolarmente impegnativo
poiché alcune classi di farmaci, quali i beta-bloccanti e i diuretici, favoriscono
l'obesità, il diabete e la dislipidemia, pertanto in soggetti a rischio per tali
patologie andrebbero evitati o utilizzati con estrema cautela. I calcio-antagonisti,
invece, sono tra le principali classi di farmaci antipertensivi a disposizione dei
medico per ottenere un'efficace riduzione della pressione arteriosa e una protezione
d'organo. Se si considera l'efficacia antipertensiva sul danno d'organo e sugli
eventi cardiovascolari, si può affermare che si tratta di una classe di farmaci
sottoutilizzata nel trattamento dell'ipertensione arteriosa.
I calcio-antagonisti hanno la stessa efficacia degli ACE-inibitori
nel
determinare una riduzione dell'IVS,
mentre risultano più efficaci di questa classe di farmaci nel prevenire la progressione
dei l'aterosclerosi. Al contrario, gli ACE-inibitori risultano più efficaci dei
calcio-antagonisti nel rallentare la progressione dell'insufficienza renale. Occorre
comunque sottolineare un aspetto: il fatto che gli ACE-inibitori o gli AT-1 (sartani)
antagonisti offrano una migliore nefroprotezione rispetto ai calcioantagonisti.
Gli ACE-inibitori e gli AT-1 antagonisti bloccano l'effetto vasocostrittore dell'angiotensina
II sull'arteriola efferente e, pertanto, riducono la pressione intraglomerulare,
che costituisce il principale meccanismo di nefroprotezione esercitato da queste
classi di farmaci.
Al contrario, i farmaci calcio-antagonisti agiscono indifferentemente
sull'arteriola sia afferente sia efferente, quindi espongono il glomerulo alla pressione
sistemica. Tuttavia, nella misura in cui i calcio-antagonisti riducono la pressione
arteriosa, in modo parallelo risultano nefroprotettivi, essendo ben documentato
come la riduzione della pressione arteriosa sia il principale meccanismo che determina
nefroprotezione.
Per quanto riguarda l'efficacia dei calcio-antagonisti sugli eventi
cardiovascolari, essi sembrano esercitare un effetto specifico nella prevenzione
dell'ictus, mentre per quanto riguarda la cardiopatia ischemica la loro efficacia
dipende dall'entità della riduzione dei valori pressori. Il principale limite all'impiego
clinico dei calcio-antagonisti è la significativa incidenza di un effetto collaterale
quale l'edema perimalleolare.
E' necessario
premettere che tale effetto collaterale non costituisce una reale indicazione a
sospendere la terapia, in quanto non ha alcuna caratteristica di pericolosità clinica.
Può tuttavia rappresentare un forte inestetismo (soprattutto nelle donne, per via
delle caviglie gonfie) o risultare fastidioso. La causa dell'edema è meccanica:
alla vasodilatazione arteriolare non corrisponde una parallela vasodilatazione venulare
e ciò comporta un aumento della pressione idrostatica a livello dei microcircolo
degli arti inferiori, con conseguente formazione di edema.
Quando l'edema si presenta,
in genere è dose-dipendente. Questo tipo di edema non è ridotto dall'associazione
di una terapia diuretica, mentre è possibile limitare l'incidenza di tale effetto
collaterale associando un ACEinibitore o un AT-1 antagonista, che, determinando
vasodilatazione venulare, compensa lo squilibrio emodinamico dovuto al calcio-antagonista.
Nella lunga storia clinica dei calcioantagonisti si è assistito a una continua evoluzione
dei farmaci appartenenti a questa classe, fino allo sviluppo delle recenti molecole
di terza generazione i cui prototipi sono l'amiodipina, caratterizzata da una lunga
emivita plasmatica, la lercanidipina, la lacidipina,
la manidipina e infine la barnidipina a lunga emivita
recettoriale determinata dall'elevata lipofilia.
Infatti per i calcioantagonisti
liposolubili maggiore è la lipofilicità, maggiore è la capacità di legarsi alla
membrana delle cellule sia endoteliali sia muscolari lisce, svolgendo localmente
una potente azione antiossidantel s. Il farmaco viene poi rilasciato in modo graduale
per andare a bloccare i canali dei calcio a livello delle cellule muscolari lisce.
Un'efficacia dei calcio-antagonisti dipende, pertanto, da due meccanismi distinti:
un meccanismo diretto antiossidante di membrana e uno specifico sui canali
dei calcio. I due meccanismi d'azione determinano effetti diversi e complementari,
tipici di questa classe di farmaci.
L'effetto antiossidante è infatti responsabile
delle potenti proprietà antiaterosclerotiche e dei profilo favorevole dal punto
di vista metabolico, mentre al blocco dei canali dei calcio si deve l'effetto classico,
antipertensivo e antianginoso, in quanto conferisce a tali molecole la capacità
di vasodilatare.
La lipofilia, responsabile della concentrazione tissutale delle
molecole, determina caratteristiche cliniche diverse tra le varie molecole della
stessa classe e soprattutto una superiore attività antiossidante nonché, attraverso
un rilascio graduale delle molecole, una concentrazione di farmaco costante a livello
dei canali dei calcio. La possibilità di evitare oscillazioni nella concentrazione
tissutale consente quindi un'efficacia clinica stabile, con una ridotta incidenza
di effetti collaterali quali la tachicardia riflessa o l'edema perimalleolare.
Questo
aspetto non deve meravigliare in quanto è ben noto che quando furono disponibili
le formulazioni a lento rilascio dei calcio-antagonisti di prima generazione, tipo nifedipina, l'utilizzo clinico di tali molecole migliorò decisamente poiché si osservò
una significativa riduzione di effetti collaterali, anche se la tollerabilità rimaneva
ancora lontana da quella ideale per farmaci da impiegare in una terapia cronica
quale quella antipertensiva. La lipofilia dell'ultimo nato dei calcioantagonisti,
la barnidipina, è di gran lunga superiore rispetto agli altri farmaci
della stessa classe e ciò comporta un rilascio molto più lento e duraturo, responsabile
della maggiore selettività vascolare e di conseguenza dei minor numero di effetti
collaterali e della maggiore protezione d'organo. Esistono dati clinici che dimostrano
chiaramente queste diverse caratteristiche dei calcio-antagonisti.
Nello studio
di Rossetti et aU 8 si paragona l'efficacia dei trattamento per 24 settimane con
barnidipina (10 mg/die) o con il calcio-antagonista di riferimento, l'amlodipina
(5-10 mg/die), in 30 pazienti con ipertensione arteriosa essenziale (15 pazienti
per gruppo).
Utilizzando lo "smoothness index", un parametro derivato dal monitoraggio
della pressione arteriosa nelle 24 ore e che indica l'omogeneità della riduzione
dei valori pressori, è stato dimostrato che entrambi i farmaci coprono le 24 ore;
tuttavia, l'effetto della barnidipina è molto più omogeneo, mentre l'amiodipina
ha un effetto superiore durante il giorno che tende a ridursi durante la notte.
Nella sindrome metabolica, come già commentato,
la terapia antipertensiva di questi pazienti non è semplice: infatti, i farmaci
che blocca no il sistema renina-angiotensina in genere non sono particolarmente
efficaci poiché la sindrome metabolica è normalmente associata a deplezione di sodio.
Per superare tale problema gli ACE-inibitori o gli AT-1 antagonisti devono essere
somministrati in associazione con i diuretici, ma queste classi di farmaci, insieme
ai beta-bloccanti, sono controindicate nei pazienti con disturbi metabolici.
Una
classe di farmaci di prima scelta nei pazienti con sindrome metabolica sarebbe costituita
dai calcio-antagonisti, che non risentono della deplezione di sodio in quanto dotati
di attività natriuretica.
Spesso, però, i calcioantagonisti non possono essere utilizzati
a causa dell'insorgenza di edema perimalleolare, che si osserva più frequentemente
nei pazienti obesi per gli ovvi problemi di ritorno venoso dagli arti inferiori.
Nello studio di Angeli et al.19 sono stati valutati 30 pazienti con pressione arteriosa
media di 146-87 mmHg (nella sindrome metabolica la definizione di ipertensione si
basa su valori > 135-85 mmHg) e trattati per 12 settimane con barnidipina 10 mg
da incrementare a 20 mg dopo 6 settimane se la pressione arteriosa non si fosse
nornalizzata <140-90 mmHg). visita:
Un Medico per Tutti
La pressione arteriosa è stata determinata anche con
il monitoraggio delle 24 ore. Inoltre sono stati indagati il profilo glicolipidico
e la struttura e funzione del ventricolo sinistro con l'ecocolorDoppler cardiaco.
Alla fine delle 12 settimane, nel 40% dei pazienti la posologia della barnidipina
era stata aumentata a 20 mg. La pressione arteriosa è risultata normalizzata nel
70% circa dei pazienti, con una riduzione della pressione sistolica e diastolica
delle 24 ore pari, rispettivamente, a 12 e 8 mmHg (p = 0,001).
E' significativo
che il calcolo dello "smoothness index" abbia rilevato un valore di 0,92 per la
pressione sistolica e di 0,82 per la diastolica, a indicare una significativa diminuzione
della variabilità pressoria sia diurna sia notturna. Per quanto riguarda il profilo
metabolico, il trattamento con barnidipina ha determinato una riduzione significativa
(p=0,001) della glicemia basale (da 110 a 104 mg/dL), mentre non ha modificato
la colesterolemia basale, LDL e HDL- né la trigliceridemia. Inoltre, il trattamento
con barnidipina ha migliorato significativamente la funzione diastolica dei ventricolo
sinistro.
I risultati di questo studio, pertanto, forniscono talune informazioni
cliniche di grande rilevanza sull'utilizzo della barnidipina in pazienti con ipertensione
arteriosa e sindrome metabolica. In questi pazienti ad alto rischio la barnidipina
è estremamente efficace nel ridurre i valori pressori, rivelando un effetto duraturo
e costante nelle 24 ore. Tale risultato riveste particolare importanza perché una
minore variabilità sia diurna sia notturna costituisce un ulteriore meccanismo di
protezione dagli eventi cardiovascolari. Il beneficio pressorio è stato ottenuto con un'ottima tollerabilità, oltretutto
senza la comparsa dei fastidiosi effetti collaterali che spesso si osservano con
i calcio-antagonisti (specialmente l'edema perimalleolare). Il farmaco ha inoltre
evidenziato un eccellente profilo metabolico con un effetto favorevole sul profilo
glicidico, confermando così uno studio precedente che indicava come la barnidipina
migliori la sensibilità insulinica.
In terapia antiipertensiva, pertanto, risulta
importante inquadrare il paziente valutando con attenzione i possibili fattori di
rischio cardiovascolare, l'eventuale danno d'organo e le patologie associate. Tutto
questo non serve soltanto a definire il rischio cardiovascolare dei paziente, ma
anche a scegliere una strategia terapeutica mirata, oltre che alla riduzione della
pressione arteriosa, anche alla prevenzione o alla regressione delle varie patologie
associate all'ipertensione.
Poiché le classi di farmaci antipertensivi sono molte
e hanno caratteristiche diverse, è compito dei buon medico conoscere in modo approfondito
ciò che può attendersi dalle sue scelte terapeutiche, in modo da ottenere un'eff
icace riduzione degli eventi cardiovascolari nei suoi pazienti.
eventi clinici per esempio precedente ictus o infarto dei miocardio, scompenso cardiaco o condizioni cliniche associate
sindrome metabolica e/o diabete mellito
malattia renale cronicaI benefici aggiuntivi da ricercare con la terapia antipertensiva
I calcio-antagonisti di terza generazione
Gastroepato :