Il trapianto di fegato, il periodo post-operatorio

  1. Gastroepato
  2. Epatologia
  3. Trapianto di fegato
  4. Il trapianto di fegato, il post-operatorio
  5. Encefalopatia epatica
  6. Insufficienza del fegato
  7. Cirrosi aggiornamento
  8. La cirrosi epatica cura
  9. La cirrosi biliare primitiva
  10. Stato di coma e perche'
  11. Sindrome epatorenale

ll trapianto di fegato introduzione .

Decorso post-operatorio nel trapianto di fegato

Terapia immunosoppressiva

L' introduzione nel 1980 della ciclosporina quale farmaco immunosoppressivo ha contribuito notevolmente al miglioramento della sopravvivenza dopo trapianto epatico.La ciclosporina inibisce l'attivazione precoce delle cellule T ed è specifica per le funzioni delle cellule T che risultano dall'interazione delle stesse con i propri recettori, coinvolgendo la via di trasduzione del segnale calcio-dipendente; come risultato, l'attività della ciclosporina porta all'inibizione dell'attivazione dei genì delle linfochine, al blocco delle interleuchine 2, 3, 4, del fattore di necrosi tumorale a e di altre linfochine. La ciclosporina inibisce anche le funzioni delle cellule B. Questo processo non interessa le cellule che si dividono rapidamente nel midollo osseo e ciò può spiegare la ridotta frequenza di infezioni sistemiche post-trapianto. Il più comune e importante effetto collaterale della ciclosporina è la nefrotossicità. 

La ciclosporina causa un danno dose-dipendente del tubulo renale e direttamente un vasospasmo dell'arteria renale. Il controllo della funzione renale è quindi molto importante nel monitoraggio della terapia con cielosporina; secondo alcuni Autori la funzione renale è un indicatore più affidabile dei livelli ematici del farmaco.

Fegato da trapiantato

La nefrotossìcità è reversibile e viene controllata riducendo la dose somministrata. Altri effetti collaterali della cielosporina sono l'ipertensione arteriosa, l'iperkaliemia, il tremore, l'irsutismo, l'intolleranza glucidica e l'iperplasia gengivale. Il tacrolimus (originariamente denominato FK506) è un antibiotico macrolide isolato da un fungo del terreno diffuso in Giappone, Streptomyces tsukubaensis. Ha lo stesso meccanismo d'azione della ciclosporina, ma è 10-100 volte più potente. Inizialmente è stato utilizzato come terapia di "recupero" nei pazienti che avevano avuto un rigetto nonostante la terapia con ciclosporina. Successivamente, due studi multicentrici randomizzati condotti su ampie casistiche hanno dimostrato che la terapia con tracrolimus riduce la frequenza di rigetto acuto, rigetto refrattario e rigetto cronico. Anche se la sopravvivenza del paziente e dell'organo correlata all'uso della ciclosporina e del tacromilus è la stessa, il tacrolimus riduce gli episodi di rigetto, riducendo la necessità di dosi addizionali di glucocorticoidi e la probabilità di infezioni batteriche e da citomegalovirus, semplificando la gestione dei pazienti che vengono sottoposti al trapianto di fegato. Inoltre, l'assorbimento orale del tacrolimus è più prevedibile di quello della ciclosporina, specialmente nel primo periodo postoperatorio quando il drenaggio del tubo a T interferisce con la circolazione enteroepatica della ciclosporina. Di conseguenza, nella maggior parte dei centri il tacrolimus ha ora sostituito la ciclosporina nell'avvio dell'immunosoppressione primaria e molti centri utilizzano la somministrazione orale, piuttosto che quella endovenosa, sin dall'inizio. Per i centri che utilizzano ancora la ciclosporina è ora disponibile un nuovo preparato caratterizzato da un migliore assorbimento. Il tacrolimus è pìù potente della ciclosporina, ma è anche più tossico e vi sono maggiori probabilità che possa essere sospeso a causa dei suoi effetti collaterali. La tossicità del tacrolimus è simile a quella della ciclosporina; la nefrotossicità e la neurotossicità sono gli effetti collaterali più frequenti e la neurotossicità (tremori, convulsioni, allucinazioni, psicosi, coma) è più frequente e più grave nei pazienti trattati con tacrolimus.

Ambedue i farmaci possono causare diabete mellito, mentre il tacrolimus non causa irsutismo né iperplasia gengivale. Poiché la ciclosporina e il tacrolimus hanno una tossicità simile (soprattutto a livello renale), e poiché il tacrolimus riduce la clearance della ciclosporina questi farmaci non dovrebbero essere utilizzati insieme. Dal momento che il 99% del tacrolimus viene metabolizzato dal fegato, una patologia epatica ne riduce la clearance; nei casi di malfunzionamento primitivo del fegato (quando, per motivi tecnici o per danno ischemico prima del trapianto, l'organo trapiantato è danneggiato e non funziona normalmente sin dall'inizio), le dosi di tacrolimus devono essere notevolmente ridotte, soprattutto nei bambini. Sia la ciclosporina che il tacrolimus sono metabolizzati dal sistema del citocromo P450 IIIA e quindi i farmaci che esercitano un effetto di induzione sul citocromo P450 (per es., fenitoina, fenobarbital, carbamazepina, rifampicina) riducono i livellì di ciclosporina e tacrolimus; i farmaci che esercitano un effetto dì induzione sul l'attività del citocromo P450 (per es., eritromicina, fluconazolo, chetoconazolo, clotrimazolo, itraconazolo, verapamil, diltiazen, nicardipina, cimetidina, danazolo, metoclopramide, bromocriptina) aumentano i livelli ematici di ciclosporina e tacrolimus. Come con l'azatioprina, anche la somministrazione di ciclosporina e tacrolimus aumenta il rischio di neoplasie linfoproliferative (vedi oltre), che si manifestano più precocemente con la ciclosporina e il tacrolimus che con azatioprina A causa di questi effetti collaterali, lo schema terapeutico preferito per la terapia immunosoppressiva è la combinazione di ciclosporina o tacrolimus con prednisone e azatioprina, tutti somministrati a dosi ridotte.  Nei pazienti con disfunzione renale pretrapianto o danno renale intraoperatorio o immediatamente postoperatorio la terapia con ciclosporina può essere impraticabile; in queste condizioni possono essere appropriati l'induzione o il mantenimento dell'immunosoppressione con anticorpi monoclonali OKT3 diretti contro le cellule T. La terapia con anticorpi OKT3 si è dimostrata particolarmente utile nel trattamento del rigetto acuto in fase post-trapianto e rappresenta il trattamento convenzionale per i rigetti acuti che non rispondono ai boli di metilprednisoIone. Infusioni endovenose di anticorpi OKT3 possono essere seguite da febbre transitoria, brividi e diarrea. L’incidenza di infezioni batteriche, fungine e soprattutto da citomegalovirus, nel caso in cui questo farmaco venga utilizzato per indurre l'immunosoppressione nelle prime fasi o per trattare un "episodio" di rigetto in pazienti in terapia "convenzionale", aumenta durante e dopo la terapia. In alcuni centri, insieme alla somministrazione di OKT3 si effettua anche una profilassi antivirale con ganciclovir. Un altro farmaco immunosoppressore che sarà probabilmente utilizzato in futuro nei pazienti sottoposti a trapianto epatico è l'acido micofenolico, un inibitore non nucleosidico del metabolismo delle purìne ottenuto come prodotto di fermentazione da numerose specie di Penicillium. Quando viene utilizzato in combinazione con gli altri farmaci immunospconvenzionali, il micofenolato risulta più efficace dell'azatioprina nel prevenire il rigetto dopo trapianto renale: negli Stati Uniti l'uso di questo farmaco nel trapianto renale è stato recentemente approvato. La raparnicina, un inibitore degli eventi tardivi dell'attivazione delle cellule T, è un altro farmaco ad attività immunosoppressiva sottoposto a studi sperimentali. L'aspetto più importante dell'immunosoppressione consiste nello stabilire un equilibrio tra immunosoppressione e immunocompetenza. Il rigetto acuto di fegato è infatti un evento sempre reversibile somministrando una dose sufficiente di farmaci immunosoppressori; tuttavia, se la dose cumulativa di questì farmaci è eccessiva il paziente morirà a causa di infezioni opportunistiche. I farmaci immunosoppressori devono pertanto essere utilizzati con giudizio, prestando particolare attenzione alle complicanze infettive da essi indotte.

Complicanze postoperatorie

Le complicanze del trapianto epatico possono essere suddivise in epatiche ed extraepatiche; inoltre, si distinguono complicanze post-trapianto precoci e tardive. I pazienti che si sottopongono a trapianto epatico sono stati di regola cronicamente malati per un lungo periodo di tempo e possono perciò essere malnutriti o in precarie condizioni generali.

Le problematiche da affrontare nel post-trapianto

Esse sono:

Le complicanze tardive del trapianto epatico.

Esse comprendono:

Dopo il primo mese dall'intervento chirurgico, a seguito di immunosoppressione farmacologica diventano evidenti e predominano infezioni opportunistiche (da citomegalovirus ed herpes, le infezioni fungine da Aspergillus, Nocardia, Candida, criptococcosi; le infezioni micobatteriche, le infezioni parassitarie (Pneumocystis, Toxoplasma) e le infezioni batteriche (Legionella, Listeria). infezioni precoci sono trasmesse con il fegato del donatore (già presenti nel donatore o acquisite con le procedure di trapianto). Infezioni epatitiche virali acquisite ex novo dall'organo del donatore o con gli emoderivati trasfusi si osservano dopo i tipici periodi di incubazione di questi agenti (ben oltre il primo mese). Ovviamente, le infezioni in un ospite immunocompromesso richiedono una diagnosi precoce e una terapia immediata; nel primo periodo, postoperatorio viene somministrata una terapia antibiotica profilattica di routine e la somministra di sulfametoxazolo associato a trimetroprim riduce l'incidenza di polmonite postoperatoria da Pneumocystis carinii.

Le complicanze neuropsichiatriche consistono in convulsioni. di solito associate a terapia con ciclosporina, encefalopatia, depressione e difficoltà di adattamento psicosociale.

  • neoplasie maligne originate nel donatoresono quelle linfoproliferative, soprattutto il linforna B-cellulare , sono una complicanza nota della terapia immunosoppressiva con farmaci quali l'azatioprina e la ciclosporina; è stato inoltre dimostrato un ruolo del virus di Epstein-Barr nello sviluppo di alcuni di questi tumori, che possono regredire quando si riduce la terapia immunosoppressiva.
  • Complicanze epatiche

    Esse comprendono gli effetti di farmaci epatotossici e dell’anestesia, l'ipoperfusione da ipotensione, la sepsi, lo shock e la colestasi benigna postoperatoria. Fonti tardive di danno intraepatico comprendono l'epatite post-trasfusionale e la recidiva della malattia primitiva. Le complicanze epatiche tipiche del trapianto di fegato sono rappresentate da insufficienza primitiva dell'organo associata a un suo danno ischemico durante l'espianto problemi vascolari conseguenti a trombosi e stenosi delle anastomosi della vena porta o dell'arteria epatica, o perdite dal coledoco anastomizzato e rigetto.

    Rigetto dei trapianto

    Nonostante l'uso di farmaci immunosoppressivi il rigetto del fegato trapiantato si osserva ancora, nella maggioranza dei pazienti, 1-2 settimane dopo l'intervento chirurgico. I segni clinici che suggeriscono un episodio di rigetto sono: febbre, dolore in ipocondrio destro e riduzione dei pigmenti e del volume biliare. Può essere presente leucocitosi, ma i più affidabili indicatori sono l'aumento della bilirubina sierica e delle transaminasi. Poiché questi test sono aspecifici, può re difficile distinguere tra il rigetto e un'ostruzione biliare, un deficit primitivo del trapianto, un'alterazione vascolare, un'epatite virale, un infezione da citomegaiovirus, un epatotossicità da farmaci e la recidiva della malattia primitiva; la visualizzazione radiologica delle vie biliari e/o la biopsia epatica percutanea spesso aiutano a stabilire la diagnosi corretta. Gli aspetti morfologici del rigetto acuto sono infiltrazione portale, danno dei dotti biliari e/o infiammazione endoteliale; alcuni di questi ricordano la malattia del trapianto contro l'ospite e la cirrosi billare primitiva. Nel sospetto di rigetto del trapianto, la terapia consiste nella somministrazione endovenosa di metilprednisolone in boli ripetuti; quando questo tentativo terapeutico fallisce, molti centri utilizzano anticorpi antilinfociti, come gli OKT3, oppure globuline policlonali antilinfocitarie.

    Il rigetto cronico è una condizione relativamente rara che può far seguito a ripetuti episodi di rigetto acuto o verificarsi indipendentemente da pregressi episodi di rigetto. Dal punto di vista morfologico, il rigetto cronico è caratterizzato da colestasi progressiva, necrosi parenchimale focale, infiltrazione mononucleare, lesioni vascolari (fibrosi intimale, cellule schiumose subintimali, necrosi fibrinoide) e fibrosi; questo processo può manifestarsi come duttopenia, cioè con la sindrome dei dotti biliari evanescenti. Alcuni degli aspetti istologici caratteristici del rigetto cronico possono essere così simili a quelli dell'epatite virale cronica da renderne difficile la differenziazione. La reversibilità del rigetto cronico è limitata; nei pazienti con rigetto cronico resistente alla terapia, l'effettuazione di un nuovo trapianto ha dato risultati incoraggianti.

    RISULTATI

    Sopravvivenza

    La sopravvivenza dei pazienti sottoposti a trapianto epatico è progressivamente migliorata a partire dal 1983. La sopravvivenza a un anno è aumentata da circa il 70% dei primi anni '80 all'80-85% nella metà degli anni '90; attualmente la sopravvivenza a 5 anni è di circa il 60%. Un'importante osservazione è la relazione tra situazione pretrapianto e risultati del trapianto stesso; i pazienti che vengono sottoposti a trapianto epatico in buone condizioni generali (per es., ancora occupati o solo parzialmente disabili) hanno infatti una sovravvivenza a 1 anno dell'85%. Al contrario, i pazienti con una situazione generale tale da avere richiesto un continuo ricovero ospedaliero pretrapianto hanno una sopravvivenza a 1 anno del 70%, mentre quelli in condizioni generali così gravi da avere richiesto il ricovero in unità di terapia intensiva hanno una sopravvivenza a 1 anno di circa il 50%. Per i pazienti che non rientrano in nessun gruppo ad alto rischio la sopravvivenza registrata a 1 e 4 anni è rispettivamente dell'85 e 80%; per contro, nei pazienti ad alto rischio, cioè quelli sottoposti a trapianto per neoplasia, epatite fulminante o epatite B, di età superiore a 65 anni, con insufficienza renale concomitante, sottoposti a respirazione artificiale, con trombosi della vena porta, pregresso shunt portocavale o interventi multipli in ipocondrio destro, la sopravvivenza a 1 anno scende al 65% e quella a 4 anni a circa il 50%. La sopravvivenza dopo ritrapianto per insufficienza primitiva d'organo è circa il 50%. Le cause di insufficienza del trapianto variano con il tempo: entro i primi 3 mesi l'insufficienza deriva soprattutto da complicanze tecniche, infezioni postoperatorie ed emorragia, mentre dopo i primi 3 mesi è dovuta a episodi infettivi, rigetto o recidiva della malattia (neoplasia o epatite virale).

    Recidiva della malattia primitiva Non sono state descritte recidive di epatiti croniche autoimmuni né di colangiti sclerosanti primitive. Vi sono state segnalazioni di recidive di cirrosi biliare primitiva dopo trapianto epatico; i quadri istologici della cirrosi biliare primitiva e del rigetto acuto, tuttavia, sono virtualmente indistinguibili e si osservano con la stessa frequenza in pazienti con cirrosi biliare primitiva e in pazienti sottoposti a trapianto epatico per altri motivi. Patologie ereditarie come la malattia di Wilson e il deficit di al-antitripsina non hanno dato luogo a recidiva dopo il trapianto; recidiva di un alterato metabolismo del ferro è stata invece osservata in alcuni pazienti con emocromatosi. La trombosi delle vene sovraepatiche (sindrome di Budd-Chiari) può recidivare; questo rischio viene ridotto trattando la malattia linfoproliferativa concomitante e mediante terapia anticoagulante. Il colangiocarcinoma recidiva quasi sempre; oggi solo pochi centri, pertanto, sottopongono a trapianto i pazienti affetti da questo tipo di tumore. Nei pazienti con carcinoma epatocellulare la recidiva tumorale nel fegato è frequente dopo circa 1 anno, anche se risultati migliori sono stati ottenuti in pazienti con lesioni non resecabili singole inferiori a 5 cm, o con tre lesioni o meno tutte inferiori a 3 cm. Si stanno conducendo studi clinici per valutare il beneficio di una chemioterapia aggiuntiva. L'epatite A può recidivare dopo il trapianto per epatite fulminante da virus A, ma questa reinfezione acuta non ha conseguenze cliniche gravi. Nell'epatite B fulminante la ricorrenza non è la regola; l'epatite B, tuttavia, recidiva quasi sempre dopo trapianto per epatite cronica terminale da HBV. Attuando una terapia immunosoppressiva sufficiente a prevenire il rigetto, i livelli di viremia dell'epatite B aumentano in modo marcato, indipendentemente dai livelli pretrapianto; la maggioranza dei pazienti sottoposti a trapianto per epatite cronica B diventa portatrice di alti livelli di HBV senza danno epatico, anche se, dopo il trapianto, in alcuni pazienti si sviluppano rapidamente un grave danno epatico, un'epatite cronica attiva o addirittura un'epatite fulminante. L'epatite colestatica fibrosante è un quadro istologico associato a danno epatico rapidamente progressivo che si osserva in circa il 10% dei pazienti sottoposti a trapianto per epatite B; questi pazienti hanno un'elevata iperbilirubinemia, un sostanziale allungamento del tempo di protrombina (ambedue questi incrementi sproporzionati rispetto alla relativamente modesta ipertransaminasemia) e insufficienza epatica rapidamente progressiva. t stato ipotizzato che questa lesione rappresenti un "soffocamento" dell'epatocita da parte di una enorme quantità di proteine dell'HBV. Nei pazienti che vengono sottoposti a trapianto epatico per epatite B sono state più frequentemente descritte complicanze quali sepsi e pancreatite. Il rischio di recidiva di epatite B è circa del 20% maggiore nei pazienti con marcatori di replicazione virale prima del trapianto (HBeAg e DNA dell'HBV); l'epatite B, tuttavia, recidiva anche nel 60% dei pazienti senza marcatori di replicazione virale prima del trapianto, probabilmente perché i farmaci immunosoppressori aumentano la replicazione dell'HBV. La maggior parte dei centri non esegue il trapianto epatico nei pazienti con epatite B, a meno che non venga effettuata un'immunoprofilassi con immunoglobuline anti-HBV (HBIG). Si sono dimostrate inefficaci sia la vaccinazione anti-HBV pretrapianto e la terapia preo post-trapianto con interferone, sia la profilassi a breve termine (di durata uguale o inferiore a 2 mesi) con HBIG. L'analisi retrospettiva dei dati raccolti in centinaia di pazienti seguiti per 3 anni dopo il trapianto ha invece dimostrato che la profilassi a lungo termine con HBIG (di durata uguale o superiore a 6 mesi) riduce il rischio di reinfezione da HBV dal 75 al 35% e la mortalità dal 50 al 20%. L'immunoprofilassi passiva con HBIG va iniziata durante la fase anepatica dell'intervento chirurgico, ripetuta giornalmente nei primi 6 giorni postintervento e quindi continuata con somministrazioni a intervalli regolari ogni 4-6 settimane o, alternativamente, quando i livelli di anti-HBs scendono sotto la soglia delle 100 mUl/ml. Con tutta probabilità la somministrazione di HBIG deve essere proseguita per un tempo indefinito; in alcuni rari casi sono state descritte recidive di infezione B durante la somministrazione delle immunoglobuline. Questo approccio è molto costoso (circa 20000 dollari/anno) e richiede la somministrazione endovenosa di preparati di immunoglobuline realizzati per l'iniezione intramuscolare. Questo approccio è ora praticamente utilizzato in ogni centro, anche se non è stato ancora ufficialmente approvato dalla Food and Drug Administation degli Stati Uniti; sono in corso studi clinici con preparati di HBIG prodotti specificatamente per la somministrazione endovenosa. Un approccio alternativo promettente, ma ancora in fase sperimentale, nella profilassi dei pazienti con epatite cronica B sottoposti a trapianto epatico è l'uso di analoghi nucleosidici come il famciclovir e la lamivudina. Dati preliminari suggeriscono che questi farmaci prevengono la recidiva dell'infezione da HBV se somministrati in fase pretrapianto, controllano le recidive di epatite B dopo il trapianto (anche nei pazienti che presentano recidive durante la profilassi con HBIG) e bloccano il decorso altrimenti fatale dell'epatite colestatica I pazienti che vengono sottoposti a trapianto epatico per epatite cronica B e D hanno una sopravvivenza migliore di quelli sottoposti a trapianto solo per epatite cronica B. L'epatite C recidiva praticamente in tutti i pazienti dopo il trapianto epatico, come risulta dall'utilizzo di marcatori virali sufficientemente sensibili. Nei pazienti con recidiva post-trapianto di epatite C si osservano sia lesioni epatiche acute che lesioni croniche e nel 50% dei casi l'epatite è di grado moderato o grave all'esame istologico. Nell'altra metà dei pazienti il danno epatico è invece lieve o assente e le conseguenze cliniche della recidiva di epatite C sono minime nei primi 5 anni dopo il trapianto. Circa il 5-10% dei pazienti ha una recidiva di epatite C sufficientemente grave da richiedere una terapia antivirale con interferone (che può sopprimere il danno epatico prodotto dall'HCV in circa il 50% dei pazienti. ma raramente è in grado di ottenere una risposta protratta); un piccolo numero di pazienti muore per il danno epatico prodotto dall'HCV e in rari casi è stata descritta una sindrome simile all'epatite colestatica fibrosante. Poiché i pazienti che hanno ripetuti episodi di rigetto ricevono una terapia immunosoppressiva a dosi maggiori e poiché la terapia immunosoppresiva aumenta la replicazione dell'HCV, i pazienti con episodi di rigetto gravi o multipli hanno maggiori probabilità di avere una recidiva precoce di epatite C dopo il trapianto. Inoltre, i pazienti con genotipo Ib hanno maggiori probabilità di recidiva di epatite da HCV, e più precocemente rispetto a pazienti con altri genotipi. D'altro canto, nella maggior parte dei pazienti l'impatto della recidiva di infezione da HCV sulla sopravvivenza dell'organo e del paziente è minima, almeno nei primi 5 anni dopo il trapianto. Nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato per cirrosi alcolica in fase terminale vi è il rischio di una ripresa del consumo di alcolici dopo il trapianto, cioè una potenziale sorgente di recidiva di danno epatico da alcol. Attualmente l'epatopatia alcolica è una delle più comuni indicazioni al trapianto epatico e la maggior parte dei centri seleziona i candidati molto attentamente sulla base di fattori predittivi di astinenza prolungata. Una ripresa dell'assunzione di alcolici è più probabile nei pazienti in cui l'astinenza pretrapianto dall'alcol sia durata meno di 6 mesi. Qualità della vita dopo il trapianto Nella maggior parte dei pazienti che sopravvivono nei primi mesi dopo il trapianto e sfuggono al rigetto cronico o a infezioni non controllabili si ottiene una riabilitazione completa. Problemi psicosociali interferiscono con l'accettazione della terapia medica solo in pochi pazienti e la maggior parte di questi si adatta alla terapia immunosoppressiva che deve essere continuata per tutta la vita. Secondo uno studio, l'85% dei pazienti sopravvissuti al trapianto è tornato a svolgere attività remunerative. Inoltre, alcune donne hanno concepito e condotto a termine una gravidanza dopo il trapianto epatico senza conseguenze per i loro bambini.

    Link in tema di epatotrapianto, per approfondire l'argomento

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    L'anatomia del fegato
    fegato ed enzimi
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