Arresto cardiaco e morte cardiaca improvvisa, fattori predittivi

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Fattori predittivi e prevenzione dell'arresto cardiaco e della morte cardiaca improvvisa

La Morte cardiaca improvvisa (MCI) rende conto di circa il 50% della mortalità totale per cause cardio-vascolari. I sottogruppi con rischio molto alto costituiscono popolazioni ben definite ("percentuale per anno") nelle quali è probabile il verificarsi di un arresto cardiaco o di una MCI. Tuttavia l'impatto di questi sottogruppi sull'incidenza complessiva nella popolazione adulta, indicato dal numero assoluto di eventi preventivabili ("eventi per anno") è relativamente modesto. Ciò che è necessario per avere un maggiore impatto sulla popolazione è attuare una prevenzione efficace delle malattie sottostanti, unitamente alla disponibilità di nuovi indicatori epidemiologici che permettano una migliore definizione dei gruppi specifici di rischio all'interno di più ampie fasce della popolazione generale.

Le strategie per prevedere e prevenire la MCI vengono classificate come primarie e secondarie, in aggiunta alle procedure volte a impedire il verificarsi di arresti cardiaci. La prevenzione primaria, come definita in vari studi sui defibrillatori impiantabili, si riferisce al tentativo di identificare i singoli pazienti con rischio specifico di MCI e di istituire strategie preventive. Il termine prevenzione secondaria indica l'insieme delle misure assunte per prevenire l'arresto cardiaco ricorrente o la morte in individui che sono andati incontro a un precedente arresto cardiaco. Le strategie di prevenzione primaria correntemente utilizzate dipendono dall'entità del rischio nei vari sottogruppi della popolazione.
Poiché l'incidenza annua di MCI nella popolazione adulta generale (non selezionata) si limita all'1-2 per 1000 per anno e più del 30% di tutte queste morti dovute a malattia coronarica acuta si verifica come prima manifestazione clinica di malattia le uniche strategie applicabili nella pratica sono rappresentate dall'elaborazione di un profilo di rischio per lo sviluppo di coronaropatia e dal controllo dei fattori di rischio. I fattori di rischio a lungo termine con il maggiore potere predittivo comprendono età, fumo di sigaretta, colesterolo, diabete mellito, ipertensione arteriosa, ipertrofia ventricolale sinistra, turbe elettrocardiografiche aspecifiche. Recentemente sono stati aggiunti alle classificazioni di rischio anche i livelli di alcuni marker aspecifici di infiammazione, come la proteina C reattiva, che possono indicare la destabilizzazione della placca ateromasica. La presenza di più fattori di rischio è associata a un aumento progressivo dell'incidenza dell'evento, ma non in maniera sufficiente o talmente specifica da giustificare terapie mirate il trattamento delle aritmie potenzialmente fatali.

Paziente mentre vengono applicate le manopole del defibrillatore, prima di defibrillareComunque, studi recenti suggeriscono che non è infondata la speranza che in un futuro prossimo possano essere disponibili marcatori genetici di rischio specifico. Questi studi indicano che un'anamnesi familiare positiva per MCI associata a sindromi coronariche acute è predittiva di aumentata probabilità di arresto cardiaco come prima manifestazione clinica di una malattia coronarica nei familiari di primo grado. Dopo l'identificazione di una malattia coronarica, sono disponibili strategie addizionali per la valutazione del rischio, ma la maggioranza degli episodi di MCI si verifica all'interno di ampi gruppi non selezionati piuttosto che nei gruppi specifici ad alto rischio che si evidenziano all'interno della popolazione con malattia nota.

Nella maggior parte delle condizioni di rischio più elevato, particolarmente quelle rappresentate la un recente evento cardiovascolare maggiore (per es., infarto miocardico recente, insufficienza cardiaca iniziale, sopravvivenza dopo arresto cardiaco in ambito extraospedaliero), il rischio più alto di morte è nei primi 6-18 mesi, attestandosi poi su una curva piatta corrispondente alla malattia di base.

Comunque, molte delle morti precoci non sono improvvise, in quanto i potenziali benefici delle strategie terapeutiche indirizzate alla MCI si diluiscono nel tempo. Tuttavia, anche se la terapia postinfartuale con betabloccanti ha un effetto favorevole sulla prevenzione sia della MCI precoce sia del rischio di morte non improvvisa, dopo infarto del miocardio non è stato osservato alcun beneficio sulla mortalità globale derivante da una terapia precoce della MCI. è possibile identificare sottogruppi ad alto rischio assoluto di MCI, dopo infarto miocardico, nelle fasi acuta, di convalescenza e cronica.  

Nel corso della fase acuta il rischio potenziale di arresto cardiaco all'esordio nel corso delle prime 48 ore può raggiungere il 15%; ne consegue che è Importante per il paziente una precoce e adeguata risposta terapeutica alla comparsa della sintomatologia. I sopravvissuti alla fase acuta dell'insufficienza ventricolare, comunque, non devono essere considerati a rischio continuo di arresto cardiaco ricorrente riferibile all'evento primario. Durante la fase di convalescenza dopo infarto miocardico (da 3 giorni a 6 settimane), un episodio di tachicardia ventricolare protratta o fibrillazione ventricolare associata a un grosso infarto predice una storia naturale di rischio di mortalità fino al 50% a 12 mesi. Almeno il 50% di morti è improvvisa. Tecniche Interventistiche aggressive possono ridurre questo rischio.

Dopo il passaggio alla fase cronica dell'IM, il rischio a lungo termine di mortalità globale e MCI è predetto da un certo numero di fattori. L'aspetto più importante per la MCI e la morte non improvvisa è l'entità del danno miocardico derivante dall'infarto miocardico acuto. Questo è misurato dall'entità di riduzione della frazione di eiezione (FE) e della capacità funzionale e/o dall'insorgenza di scompenso cardiaco. Vari studi hanno dimostrato che le aritmie ventricolari identificate dal monitoraggio ambulatoriale contribuiscono significativamente a questo rischio, specialmente in pazienti con una FE inferiore al 40%.

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Inoltre, l'induzione di tachicardia ventricolare o di fibrillazione ventricolare durante i test elettrofisiologici in pazienti che hanno aritmie ventricolari (contrazioni ventricolari premature, o CVP, e tachicardia ventricolare non protratta) e una FE superiore al 35% o 10% è una forte previsione di rischio di MCI. I pazienti di questo sottogruppo sono ora considerati potenziali candidati all'impianto di defibrillatori Cardiaci (ICD; vedi oltre). Il rischio diminuisce molto con FE superiore al 40 % dopo infarto miocardico e assenza di una aritmia intrinseca e viceversa è alto con FE inferiore al 30% anche in assenza dei parametri di aritmia intrinseca. Le miocardiopatie (dilatative e ipertrofiche) sono la seconda categoria più comune di malattie associate al rischio di MCI, seguite dalla malattia coronarica. Sono stati identificati alcuni fattori di rischio, largamente correlati all'estensione della malattia, come l'aritmia ventricolare documentata e le aritmie sintomatiche (per es., sincope inspiegabile).

Le cause meno comuni di MCI includono le malattie valvolari cardiache (in primo luogo quella aortica) e i disturbi infiammatori e infiltrativi del miocardio. Queste ultime patologie includono la miocardite virale, la sarcoidosi, e l'amiloidosi. Fra gli adolescenti e i giovani adulti, rari disordini ereditari, come la miocardiopatia ipertrofica, la sindrome del QT lungo, la displasia ventricolare destra e la sindrome di Brugada, hanno ricevuto una particolare attenzione come importanti cause di MCI, grazie ai progressi della genetica e della capacità di identificare alcune di essi prima di un evento fatale. Il sottogruppo di atleti giovani e competitivi è stato oggetto di una particolare attenzione.

L'incidenza di MCI tra gli atleti sembra essere più alta che nella popolazione generale degli adolescenti e giovani adulti, forse fino a 1 caso ogni 75 000. La miocardiopatia ipertrofica è la causa più comune negli Stati Uniti, diversamente dall'Italia, dove un programma di selezione più completo esclude le potenziali vittime dalla popolazione di atleti. Le strategie di prevenzione secondaria dovrebbero essere applicate a un arresto cardiaco non associato a un infarto miocardico acuto o a un rischio transitorio di MCI (per es., esposizione a farmaci, squilibri elettrolitici correggibili).

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