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Rischio cardiometabolico: un nuovo concetto per la prevenzione

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appunti del dott. Claudio Italiano

Negli ultimi anni il modo di affrontare i fattori di rischio cardiovascolare è radicalmente cambiato: si è passati dal cosiddetto approccio per "silos" - che metteva al centro dell'attenzione i vari fattori di rischio (FR) considerandoli singolarmente, uno per volta - al concetto del rischio cardiovascolare globale (RCG), che, invece, pone l'attenzione sul paziente, sostenendo che i FR sono strettamente correlati tra loro e, quindi, devono essere tutti identificati e trattati in modo più o meno aggressivo.

In sintesi, occorre trattare il paziente, non il singolo FR. Il rischio cardiovascolare, infatti, è condizionato da una serie di fattori cosiddetti immodificabili (l'età, il sesso e la familiarità) sui quali, ovviamente, non possiamo intervenire, cui vanno sommati quei fattori (ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, fumo, diabete ecc.), cosiddetti modificabili (attraverso lo stile di vita o un trattamento farmacologico), sui quali dobbiamo invece concentrare tutta la nostra attenzione.
Ciascun fattore di rischio condiziona la probabilità che chi ne è affetto possa avere un evento (rispetto a chi quel fattore di rischio non ce l'ha) in modo più o meno e il suo "peso" è definito da un numero (coefficiente) che moltiplica il rischio di base.

La somma di tutti i coefficienti dei singoli fattori di rischio di cui un soggetto soffre definisce il suo rischio cardiovascolare globale assoluto. Il concetto di "rischio cardiometabolico", strettamente correlato a quello di rischio cardiovascolare globale, nasce da due importanti osservazioni. La prima riguarda il fatto che, nonostante abbiamo a disposizione terapie potenti ed efficaci per il controllo di alcuni importanti fattori di rischio indipendenti, come l'ipertensione e l'ipercolesterolemia, i tassi di morbilità e mortalità cardiovascolari continuano a essere elevati, la cosiddetta maggioranza dimenticata o rischio residuo.

La seconda riguarda l'aumentata prevalenza dell'obesità che, in alcuni Paesi, sta diventando una vera e propria emergenza sanitaria. L'obesità, in particolare quella viscerale, rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo sia di diabete di tipo 2 sia di patologie cardiovascolari, soprattutto quando a essa si associano insulino-resistenza, nelle sue varie presentazioni (iperinsulinemia, iperglicemia a digiuno, ridotta tolleranza al carico orale di glucosio o diabete di tipo 2), ipertensione arteriosa c/o dislipidemia aterogena. Questo insieme di anomalie metaboliche (fattori di rischio cardiometabolico) tende a "clusterizzarsi", dando luogo a una condizione morbosa che viene oggi definita sindrome metabolica, proprio per sottolineare il carattere non casuale di tale associazione.

E' importante segnalare che la prevalenza della sindrome metabolica, che è in continua ascesa, aumenta linearmente con l'età e va, mediamente dal 7% nei soggetti di età compresa tra i 20 e i 29 anni al 40-45% in quelli con età > 60 anni.

Definizione di  Sindrome Metabolica (S.M.), secondo L'Organizzazione Mondiale della Sanità

- Alterata regolazione glucidica o diabete

- Insulinoresistenza

- Ipertensione (>140/90 mmHg)

- Ipertrigliceridemia (150 mg/dl e/o basso tasso di colesterolo HDL (<35 mg/dl nei maschi e < 39 mg/dl nelle femmine)

- Obesità centrale (c >0,9 nel maschio e > 0,85 nelle femmine e /o BMI > 30

- Microalbuminuria

Al momento non esiste una definizione di sindrome metabolica universalmente accettata, tuttavia quella più diffusa è basata sui criteri definiti dalle linee guida del Third Report of the National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel (NCEP ATP III) ed è riportata nella Tabella di cui appresso:

Fattori di rischio Obesità addominale valutata come circonferenza vita
 

Maschi

>102 cm
Femmine >89 cm
Trigliceridi >  150 mg/dl
Colesterolo HDL
Maschi < 40 mg/dl
Femmine < 50 mg/dl
Pressione arteriosa >  130/85 mmHg
Glicemia a digiuno > 110 mg/dl

Per capire come queste alterazioni metaboliche possano aumentare il rischio cardiovascolare, va aggiunto che nel paziente con obesità viscerale si osservano anche disfunzione endoteliale e aumento del fibrinogeno e del PAI-1, che inducono uno stato protrombotico e una risposta infiammatoria cronica, di basso grado, caratterizzata da un'alterata  produzione di citochine infiammatorie (tra cui TNFα e IL-6) e da un modesto aumento della proteina C reattiva (PCR). Inoltre, nel tessuto adiposo è presente un infiltrato di macrofagi direttamente proporzionale al grado di obesità.

Studi epidemiologici avevano già dimostrato che l'eccesso di grasso viscerale era correlato a un aumento del rischio cardiovascolare ma recentemente è stata dimostrata la relazione che lega l'aumento del grasso viscerale (e quindi di IL-6), l'aumento della PCR, l'insulino-resistenza e l'evoluzione verso il diabete di tipo 2 con il rischio di eventi cardiovascolari.

Le cellule adipose stimolano una condizione infiammatoria sistemica, con la secrezione ad alte concentrazioni di IL-6 che, a sua volta, stimola la produzione nel fegato della PCR; IL-6 e PCR sono entrambe coinvolte nella patogenesi dell'insulinoresistenza (quindi della sindrome metabolica e del diabete mellito di tipo 2) e dell'infarto. Il ruolo dell'infiammazione nello sviluppo dell'aterotrombosi e soprattutto nella rottura della placca è noto da tempo, tanto che negli ultimi anni si è avvertita l'esigenza di individuare dei biomarker circolanti dell'infiammazione che fossero misurabili in modo attendibile.

Tra questi si è imposta la PCR misurata con metodica ad alta sensibilità (high-sensitivity C-reactive protein, hs-PCR) tanto che, negli ultimi anni, molti studi si sono basati sulla sua valutazione sia per identificare i pazienti a più alto rischio cardiovascolare sia per valutare gli effetti del trattamento di prevenzione.

Il dosaggio dei livelli di hs-PCR potrebbe aiutare a definire meglio il rischio di eventi cardiovascolari nei pazienti con sindrome metabolica: è stato infatti osservato che tale rischio è differente in base a quali dei criteri diagnostici attualmente accettati siano utilizzati. Sono ormai numerose le evidenze che correlano l'effettivo aumento del rischio agli elevati livelli di hs-PGR, tant'è che è stato proposto di inserire l'hs-PCR fra i criteri per la diagnosi di sindrome metabolica [71 . Tuttavia, considerando che l'hs-PCR non è ancora dosabile su vasta scala, per differenziare i soggetti a più alto rischio dovrebbe essere individuato un altro parametro, più facilmente misurabile e a basso costo.

La circonferenza addominale, che è strettamente correlata all'adiposità viscerale, rispetta questi criteri e la sua semplice misurazione può essere utilizzata per focalizzare meglio il profilo di rischio dei pazienti con sindrome metabolica. Pur con questi aspetti ancora controversi, la sindrome metabolica è comunque considerata situazione ad alto rischio cardiovascolare e le attuali linee guida la inseriscono tra quelle condizioni cliniche in cui i target terapeutici, nonostante ci si trovi in una situazione di prevenzione primaria, devono essere più aggressivi. A questo proposito, lo studio JUPITER ha fornito una serie di dati interessanti sui quali riflettere.

Infatti, si tratta di uno studio in prevenzione primaria, condotto su una popolazione di soggetti apparentemente sani, dove il criterio di arruolamento non era rappresentato dall'ipercolesterolemia [il colesterolo LDL- (c-LDL) all'ingresso doveva essere < 130 mg/dl, ma, piuttosto, dalla presenza di livelli elevati di hs-PCR (> 2 mg/L). E' importante segnalare che buona parte dei pazienti aveva una sindrome metabolica (41 % nei trattati vs 41,8 % nei controlli) con un indice di massa corporea (body mass index, BMP elevato (circa 28 kg/m 2) e quindi questi pazienti rientravano nel concetto di rischio cardiometabolico. Lo studio ha dimostrato che un trattamento intensivo, con una statina ad alta efficacia (rosuvastatina 20 mg/die), oltre ad abbassare significativamente, come atteso, i livelli di c-LDL (-50% rispetto al basale), ha ridotto significativamente l'hs-PCR e che l'effetto combinato si è tradotto in una significativa diminuzione del rischio di un primo evento cardiovascolarel'11 (-44%) e della mortalità totale (-20%) se confrontato con il placebo.

Oltre a fornire un'ulteriore conferma che, in aggiunta alla potente azione ipocolesterolemizzante, le statine esercitano anche una serie di effetti vasoprotettivi, antinfiammatori e antitrombotici, cosiddetti " pleiotropici, questi risultati confermano che non si deve sottovalutare il rischio cardiometabolico caratterizzato da una complessa interazione tra infiammazione e fattori metabolici come l'obesità viscerale e l'insulino -resistenza.

Le più recenti evidenze, quindi, assegnano alle statine un ruolo e un impatto clinico che va oltre la semplice riduzione dei valori di colesterolo totale e di colesterolo LDL (c-LDL) e le identificano come presidio essenziale nel trattamento del paziente affetto da sindrome metabolica.In particolare, in uno studio di Rosenson ci al. di confronto tra atorvastatina e rosuvastatina, quest'ultima, a parità di dosaggio, è risultata associata a una maggiore riduzione dei valori di c-LDL e di trigliceridi e a un significativo incremento di quelli di colesterolo HDL- (c-HDL) e ha dimostrato una buona efficacia nel ridurre i livelli circolanti delle lipoproteme piccole e dense.

La riduzione dei livelli circolanti di LDL- (lowdensity lipoprotein) e conseguentemente del colesterolo plasmatico a esse associato (c-LDL) rappresenta attualmente il trattamento di prima scelta nel controllo del rischio cardiovascolare. L'efficacia di tale intervento terapeutico è documentata soprattutto dagli studi clinici nei quali le statine sono state utilizzate in monoterapia quali agenti ipocolesterolemizzanti. L'utilizzo di questa classe di farmaci ha permesso non solo di confermare la teoria lipidica dell'aterosclerosi, dimostrando che una riduzione degli elevati livelli di c-LDL effettivamente riduce la comparsa di eventi cardiovascolari, ma anche di stabilire che il beneficio di tale strategia terapeutica non è limitato ai soli soggetti ipercolesterolemici.L'esperienza clinica acquisita su un'ampia popolazione (oltre 90.000 pazienti) ha permesso di stabilire che il beneficio in termini relativi di riduzione del rischio è direttamente proporzionale alla percentuale di riduzione del c-LDL.

Nella metanalisi di Law et al., il trattamento con statine ha ridotto del 61% il rischio a lungo termine di cardiopatia ischemica in pazienti di 60 anni. Questi risultati, che hanno evidenziato un beneficio delle statine all'incirca doppio rispetto a quello stimato in base agli studi precedenti, hanno confermato comunque l'esistenza di un rischio residuo importante. Le cause di questo rischio residuo restano da chiarire, tuttavia è ipotizzabile che esso dipenda dalla quantità di LDL che permangono in circolo dopo il trattamento e dal fatto che altri fattori causali non siano modificati in modo sufficiente dalle statine.

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Tali fattori possono comprendere un'elevata infiammazione sistemica, che può manifestarsi con livelli di proteina C reattiva ad alta sensibilità (high-sensitivity C-reactive protein, hs-PCR) > 3 mg/L. A questo proposito è opportuno ricordare che le diverse statine, agendo come inibitori dell'idrossimetilglutaril-coenzima A (HMG-CoA) reduttasi, l'enzima limitante la sintesi intracellulare di colesterolo e degli isoprenoidi, possono, in base alla loro efficacia inibitoria, essere più o meno attive su entrambi questi parametri, riducendo in modo più o meno marcato non soltanto il c-LDL, ma anche il grado di infiammazione.

Questo effetto può riflettersi in un miglior controllo del rischio cardiovascolare e conseguente minor rischio residuo. Come noto, nello studio JUPITER condotto con rosuvastatina, la riduzione del rischio è stata mediamente del 44%, proporzionale al calo del c-LDL. Tuttavia, nei soggetti nei quali è stato raggiunto il minor livello di c-LDL e il miglior controllo dell'infiammazione sistemica con maggiore riduzione della'PCR, il rischio cardiovascolare si è ridotto di circa il 79% (per c-LDL < 70 mg/dl e hs-PCR < 1 mg/L). Appare quindi inappropriato parlare in generale di un rischio residuo dopo trattamento con statine, ma è probabilmente più corretto parlare di un rischio residuo per ogni tipo di statina. Infatti, il rischio residuo dipende dall'efficacia della statina considerata di ridurre il colesterolo e di inibire la reduttasi. Come precedentemente ricordato, tale effetto inibitorio sulla reduttasi determina, infatti, sia il grado di riduzione del c-LDL, sia gli eventuali effetti pleiotropici, tra cui l'effetto antinfiammatorio.

E' inoltre importante ricordare che la tollerabilità delle statine non dipende dalla loro efficacia in termini di inibizione della reduttasi, ma unicamente dalla dose utilizzata. Ciò permette di ottenere con le statine più efficaci una maggiore inibizione dell'enzima e quindi del rischio residuo.

Questo non implica naturalmente che con l'utilizzo di statine sia possibile azzerare il rischio residuo. E' probabile che nuovi interventi mirati ad altri meccanismi protettivi, quali un incremento della quantità o della qualità del colesterolo HDL (c-HDL), possano contribuire in modo determinante a migliorare l'efficacia terapeutica in termini di riduzione degli eventi cardiovascolari. Indipendentemente dalle considerazioni sull'associazione tra una statina e i farmaci, attualmente in studio, attivi sul c-HDL, è ragionevole ipotizzare che la scelta di una statina per un'ottimizzazione della terapia possa ricadere su una molecola con il profilo più favorevole in termini di rapporto tra effetti di riduzione del c-LDI_ e aumento del c-HDL. L'effetto delle statine sul c-HDL appare indipendente dal grado di inibizione della reduttasi, come documentato dalla maggiore efficacia di simvastatina rispetto ad atorvastatina; ciononostante, rosuvastatina appare essere la più efficace anche su tale parametro, con il miglior rapporto tra riduzione del c-LDL e aumento del e-HDL, seppure nei limiti di efficacia di questa classe di farmaci su quest'ultimo parametro lipidico.

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