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Leucemia linfocitica cronica

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Articolo aggiornato al luglio 2019

Piccoli linfociti B in leucemia
linfatica cronica in microscopia ottica

La leucemia linfatica cronica (CLL) è nella maggior parte dei casi una malattia neoplastica dei linfociti B, cioè i globuli bianchi che svolgono funzione di difesa per l'organismo attraverso la produzione di immunoglobuline.

Nel 98% circa dei casi, le cellule B CD5+ vanno incontro a una trasformazione maligna, con linfociti che inizialmente si accumulano nel midollo osseo e quindi diffondono nei linfonodi e in altri tessuti linfatici, inducendo infine splenomegalia ed epatomegalia.  Un'origine T si è riscontrata nel 10-20% dei casi.

 Raramente, almeno nei paesi occidentali, essa origina dai linfociti T,  cellule del sangue che hanno la funzione principale di difendere l'organismo contro virus, tumori e di rigettare i trapianti incompatibili. è definita cronica perché ha quasi sempre un decorso molto lento, con scarsi sintomi  e non necessita talora di terapia antileucemica ma solo di monitoraggio.

Essa è una condizione morbosa maligna, perciò, dei linfociti caratterizzata dal diffondersi e dall'accumularsi di piccoli linfociti originati dalle cellule B. La CLL è essenzialmente identica al linfoma a piccoli linfociti ad origine dalle cellule B contemplato nella classificazione REAL e in quella WF.

è la forma di leucemia più comune negli Stati Uniti ed è due volte più frequente nei maschi che nelle femmine. Può insorgere in ogni momento della vita, ma la sua incidenza aumenta con l'aumentare dell'età e oltre il 90% dei casi viene individuato in persone adulte che hanno superato i 50 anni.


Eziopatogenesi della leucemia linfocitica cronica

Non si conoscono le cause della leucemia linfatica cronica, ma sappiamo che la trasformazione neoplastica  avviene all'inizio in una sola cellula, nel nostro caso un linfocita B, in seguito all'azione di uno o più fattori, per ora sconosciuti, che alterano il suo DNA e gli conferiscono la proprietà di dividersi e di vivere molto più a lungo rispetto ad un linfocita normale, per cui all'emocromo si evidenzia un numero elevato di linfociti, con un lento ma progressivo aumento nel corso degli anni dei globuli bianchi e dei linfociti in particolare.   A differenza della leucemia linfoblastica acuta,  nella leucemia linfatica cronica la trasformazione neoplastica avviene in un linfocita maturo, la teoria presuppone che dei linfociti B CD5+, con il complesso BCR subiscano una stimolazione antigenica. Sulla scorta di uno stimolo, per es. l'infezione virale di EBV o CMV, si generano delle cellule abnormi, con alterazioni del materiale genetico.

Le alterazioni più frequenti nelle cellule tumorali dei pazienti affetti di leucemia linfatica cronica sono:
- perdita di una porzione del cromosoma 13 (del13q14), presente in circa il 55% dei pazienti e associata, in assenza di altre anomalie cromosomiche, a un decorso della malattia favorevole;
- perdita di una porzione del cromosoma 11 (del11q23);
- acquisizione di una terza copia del cromosoma 12 (trisomia 12);
- perdita di una porzione del cromosoma 17 (del17p13), associata allo sviluppo di resistenza al trattamento, e quindi a un decorso clinico sfavorevole;
- mutazioni nel gene TP53, che hanno effetti simili a quelli della perdita del cromosoma 17.

 Non sono stati implicati fattori ambientali, quali le radiazioni e l'esposizione a sostanze carcinogene.

La forma comune di CLL è costituita dalla proliferazione clonale delle cellule B mature che esprimono i marker caratteristici di tali cellule e bassi livelli di IgM di superficie limitate alla catena leggera, rispecchiando così l'origine clonale di questa condizione morbosa maligna.  Nella leucemia linfatica cronica, infatti, si pensa che  uno dei linfociti attivati continua a moltiplicarsi anche quando non è più necessario, dando vita a un numero sempre maggiore di cellule, che costituiscono la leucemia.

Nella maggior parte dei casi, le cellule della leucemia linfatica cronica presentano delle alterazioni a carico del materiale genetico (DNA).  Queste alterazioni colpiscono spesso geni importanti per il controllo della crescita dei linfociti, e contribuiscono alla loro trasformazione in cellule leucemiche.

Le cellule B della CLL, inoltre, esprimono la molecola CD5, che identifica un sottogruppo minore di cellule B normali, e il CD23 (il recettore Fc per le IgE). Pertanto, l'immunofenotipo diagnostico della CLL è costituito da una popolazione matura di cellule B che è di origine clonale (in base a studi di restrizione delle catene leggere o di riarrangiamento dei geni delle immuno-globuline), esprime i caratteristici marker delle cellule B mature (CD19, CD20, CD21) ed è positiva sia per CD5 che per CD23. Pur non essendo stata identificata nella CLL alcuna anomalia cromosomica patognomonica, una percentuale di pazienti variabile dal 30% al 50% presenta anomalie citogenetiche, la più frequente delle quali interessa i cromosomi 12 (spesso trisomia 12), 13 o 14; la presenza di tali anomalie citogenetiche comporta una prognosi più sfavorevole.

 Gli strisci del midollo osseo o del sangue periferico rivelano la preponderanza dei linfociti piccoli con nucleoli scarsamente visibili, mentre i linfonodi interessati mostrano un infiltrato diffuso da parte di queste cellule, che stravolgono la normale architettura cellulare.  La leucemia linfatica cronica si caratterizza per la presenza del prolinfocita B, cellula a cellule con cromatina addensata e grosso nucleo.
Le cellule della CLL si accumulano nel midollo osseo, nel sangue periferico, nei linfonodi e nella milza producendo linfocitosi, ridotta funzionalità midollare, linfoadenopatia e splenomegalia. Altro segno della CLL è frequentemente accompagnata da deregolamentazione immunologica, manifestata da ipogammaglobulinemia con conseguente rischio accresciuto di infezioni batteriche e di fenomeni autoimmuni, quali l'anemia emolitica con test di Coombs positivo o la piastrinopenia autoimmune.

Diagnosi della leucemia linfocitica cronica

La diagnosi è spesso fatta casualmente nel corso di un esame emocromocitometrico di routine che mostra una leucocitosi con prevalenza di piccoli linfociti; l'analisi flusso-citometrica del sangue periferico o di un aspirato di midollo osseo rivelerà la caratteristica popolazione di cellule B clonali positiva per CD5 e CD23. Alcuni pazienti si presentano con linfoadenopatia e con sintomi connessi con la citopenia o, a volte, con infezioni ricorrenti.

 Con l'avanzare della malattia, i pazienti presentano una linfoadenopatia generalizzata, epatosplenomegalia e insufficienza del midollo osseo. La morte spesso interviene per complicazioni infettive o per l'insufficienza midollare nei pazienti che sono divenuti refrattari alla terapia. In circa il 5% dei casi la CLL si trasforma in un linfoma diffuso a grandi cellule notevolmente maligno, che di solito risulta rapidamente fatale; questa trasformazione viene comunemente denominata sindrome di Richter.

 La CLL è una leucemia/linfoma di basso grado caratterizzata tipicamente da un lungo decorso clinico a lenta progressione per anni e persine per decenni; la sopravvivenza media supera i 6 anni. Il migliore indice predittivo di sopravvivenza è costituito dall'estensione, o stadio, della malattia al suo esordio; la maggioranza dei pazienti è individuata allo stadio O, I o II della malattia. Dato che la terapia standard non è curativa e che la CLL può manifestare una fase asintomatica della durata di vari anni, il trattamento specifico può essere procrastinato fino a quando il paziente svilupperà la sintomatologia (p. es., linfoadenopatia voluminosa, sintomi costituzionali come la febbre, o citopenie dovute all'infiltrazione del midollo osseo o a un fenomeno autoimmune).

Stadiazione della leucemia linfocitica cronica

Classificazione secondo Rai

Stadio 0 - Linfocitosi assoluta > 10 000/μL nel sangue e con ≥ 30% di linfociti nel midollo osseo

Stadio I- Stadio 0 più linfoadenomegalia

Stadio II - Stadio 0 più epatomegalia o splenomegalia

Stadio III - Stadio 0 più anemia con Hb < 11 g/dL

Stadio IV- Stadio 0 più trombocitopenia con conta piastrinica < 100 000/μL

Classificazione secondo Binet

Stadio A  - Linfocitosi assoluta > 10 000/μL nel sangue e con ≥ 30% di linfociti nel midollo osseo, Hb ≥ 10 g/dL, Piastrine ≥ 100 000/μL, ≤ 2 sedi coinvolte

Stadio B - Come stadio A, ma 3-5 siti coinvolti

Stadio C - Come stadio A o B, ma Hb < 10 g/dL o piastrine < 100 000/μL

 

Terapia e prognosi

I pazienti in stadio Rai 0-II al momento della diagnosi possono sopravvivere per 5-20 anni senza trattamento. I pazienti in stadio Rai III o IV hanno una maggior probabilità di decesso entro 3-4 anni dalla diagnosi.

Quando è necessario il trattamento, la terapia iniziale consiste in un agente alchilante, come il clorambucile in combinazione con il prednisone, o in un analogo dei nucleosidi, come la fludarabina. La maggior parte dei pazienti risponde all'una o all'altra di queste terapie, con una riduzione significativa della massa tumorale. La terapia a base di fludarabina induce una percentuale più elevata di remissioni complete rispetto a quella con clorambucile e sta perciò diventando il trattamento elettivo iniziale. I pazienti che presentano fenomeno autoimmuni vengono trattati con corticosteroidi; le gammaglobuline per via endovenosa possono essere impiegate per ridurre le infezioni.

Terapia con Ac monoclonali
Il rituximab è il primo Ac monoclonale usato con successo nel trattamento delle neoplasie linfoidi. In pazienti precedentemente non trattati, il tasso di risposta è del 75%, con il 20% dei pazienti che raggiunge una remissione completa. L'alemtuzumab è un'altro anticorpo monoclonale, ma meno efficace. Il rituximab si lega a una proteina che si chiama CD20 eche si trova sulla superficie di uno dei tipi principali di globuli bianchi normali (linfociti B). Questa proteina si trova anche sulla superficie della maggior parte dei linfociti B che causano alcune forme di linfoma non Hodgkin a basso grado. Il rituximab agisce attaccando sia i linfociti B maligni sia quelli normali; tuttavia, l'organismo è in grado di sostituire rapidamente eventuali globuli bianchi normali danneggiati, riducendo in tal modo sensibilmente il rischio di effetti collaterali.

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